"Passai
in rassegna con lo sguardo i vinili esposti nella teca di legno pregiato e ne
presi uno.
Posai
il disco di pece sul piatto del grammofono e posizionai la punta. Carezzai il
dorso dorato del cono e sprofondai sulla poltrona in velluto verde, bardata di
drappi persiani con le frange che terminavano in piccoli cristalli.
Accanto
c’era un tavolinetto in mogano, su cui erano poggiati una bottiglia di bourbon,
una scatola in argento di sigarette alla vaniglia e un bocchino in avorio.
Il
disco gracchiò, come un cantante che scalda la voce prima di un’impegnativa
esecuzione.
Ed
eccolo. Debussy.
La
musica si diffuse nella stanza come un balsamo e me ne sentii umettata dai
piedi, ai capelli. Le palpebre si chiusero e gustai quel frammento di fiammeggiante
bellezza, di perfezione. Di immortalità.
Presi
una sigaretta dalla scatola, soffermandomi a percorrere con i polpastrelli i
fini ricami cesellati sul coperchio. La infilai nell’imboccatura del bocchino e
la accesi.
Gary
mi ripeteva spesso di non fumare. Diceva che mi avrebbe rovinato la voce.
Personalmente credevo che fosse stato anche il tabacco a contribuire a quel mio
suono grave e corposo. Al pubblico piaceva il mio timbro, dubito che potesse cambiare.
Inspirai
e sbuffai una voluta d’argento che si mise a danzare sopra la mia testa. Altri
nastri azzurrognoli si accavallarono in un’acrobazia nell’aria."
Il vento passava le sue dita leggere tra i
capelli dello Jupfer e i suoi occhi si fecero cupi, come i marosi in tempesta.
Fui io la prima a parlare. Il silenzio mi
soffocava come le spire di un cobra letale. «Di chi ti sei innamorato?»
«Dirtelo non cambierebbe le cose.»
«Ayku, dimmelo. Dannazione!»
Lui si voltò verso di me e vidi stringhe di
rugiada colargli giù dagli occhi. Piangeva. Lui, lo Jupfer. Lo spirito
immortale.
«Di te, Grace.»
Urlò e il mare ci inondò con una terza onda.
Fu l’acqua a unirci in un abbraccio di sale. E poi furono le braccia a legarsi,
come nastri di raso.
Svanimmo.
Ci toccammo con un’ansia furiosa. Le nostre
mani sembravano farfalle inquiete che non sapevano dove posarsi.
Ayku mi afferrò il viso tra le mani e fece
scivolare sulla mia guancia una lenta carezza.
Gemetti per il piacere di quel tocco, per la
gioia senza misura che mi pervase. Avrei potuto morire per la felicità. Non
sentivo più il cuore, tanto frenetici erano i battiti. Nel petto avevo il
ronzio di un calabrone.
«Perdonami se ti ho spaventata», sussurrò, con
una voce che mi ricordò il suono del vento autunnale tra le foglie.
Rinvenni del tutto e, non so come, mi
allontanai di scatto. Ero impaurita e sorpresa.
Da lì potei vederlo meglio. Sembrava sul serio
l’angelo di pietra che avevo ammirato fino a poco tempo prima. La creatura
alata presso cui mi rifugiavo quando ero bambina, annegando le lacrime nel buio
dei sotterranei. Il mio principe di pietra era lì.
Il suo corpo era un fascio armonioso di
muscoli tesi. Aveva il torace nudo, liscio e madreperlaceo. Perfetto. Vi notai
delle striature azzurrognole tatuate che si rincorrevano in ghirigori dal
tronco fino al collo. E brillavano.
Indossava una specie di pantaloni, larghi e di
un tessuto iridescente che non avevo mai visto.
Era scalzo.
Un uomo è realmente bello quando lo sono i
suoi piedi. E i suoi erano perfetti, intarsi nel marmo, raffigurazione di una
poesia proibita.
Fui così abbagliata dalla sua visione che non
trovai nemmeno strana la sua presenza.
«Chi sei?» gli domandai con voce esile.
«Sono uno Jupfer, Grace», rispose, portandosi
una mano al petto.
La mia mente vacillò. Stavo impazzendo. Prima
avevo visto il mostro dai denti di sciabola nera e adesso un dio dalla pelle di
perla.
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